Sono un «tesserato» dell’Ordine dei giornalisti dal 1982, anno in cui passai un esame di abilitazione privo di qualsiasi rapporto con le conoscenze necessarie per svolgere la mia professione.
Nei 24 anni trascorsi da quando ho iniziato a fare questo mestiere – e anche molto prima che lo facessi io – più volte nel mio paese è stata offesa la libertà di stampa, la qualità e l’affidabilità dell’informazione. Le minacce più serie sono venute dall’intreccio tra politica, affari e mass media; dai conflitti d’interessi; dal duopolio o monopolio televisivo; e insieme dal servilismo, dalle collusioni e complicità che periodicamente si manifestano tra giornalisti e politici, tra giornalisti e potentati economici, o semplicemente tra i giornalisti e le loro fonti quando le notizie diventano merce di scambio per favori reciproci, al servizio di agende occulte e inconfessabili.
È un male antico la sottomissione di una parte del giornalismo italiano a logiche di potere, di partito, di mafie, di cordate. Il ruolo dei mass media per far crescere una società civile informata e consapevole dei suoi diritti, decade ogni volta che i giornalisti servono interessi «altri» da quelli del loro pubblico. In nessuna occasione ho visto l’Ordine contrastare questi pericoli, mettersi di traverso alle trame e alle «cupole», svolgere un compito libertario, moralizzatore o di semplice disciplina deontologica. Non ricordo che l’Ordine si sia distinto per la sua efficacia nel difendere giornali aggrediti e intimiditi dal potere politico, o scalati da cordate finanziarie che volevano usarli come strumenti di pressione. Non mi risulta che l’Ordine abbia scatenato campagne coraggiose contro la lottizzazione della Rai, o contro l’ascesa del monopolio di Berlusconi nella tv commerciale.
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