Personalmente, provo sempre un senso di depressione profonda quando, in un romanzo, l’autore si accinge alla inevitabile, faticosa, escursione agli armadietti degli spogliatoi del passato. Certe volte salto il capitolo, certe altre chiudo il libro e non lo riapro più. Nella maggior parte dei casi, diciamolo pure, il nostro passato non è un soggetto particolarmente drammatico, e dovrebbe essere abbastanza poco interessante da lasciarci liberi appena siamo pronti a esserlo (anche se è vero che quando si giunge a quel momento spesso si è spaventati a morte, ci si sente nudi come serpenti e non si sa bene che cosa dire).
Alla mia storia io penso come a una serie di cartoline postali, con tante figure diverse sul davanti, ma senza messaggi particolari, o memorabili, sul retro. Ci si può staccare completamente dalle proprie origini, come sappiamo tutti, e non per un proprio disegno malevolo, ma per colpa della vita stessa, del fato, dell’eterno presente che ci trascina con sé.
L’impronta che lasciano su di noi i nostri genitori, o, in generale, il passato, come la vedo io finisce sempre con l’usurarsi: a un certo punto ci troviamo comunque, nella nostra interezza, soli con noi stessi, e questa non è una situazione che si possa cambiare, in meglio o in peggio, per cui tanto vale pensare a qualcosa di più promettente".
Richard Ford, Sportswriter, Feltrinelli
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