Passeggiando, ho incontrato un'amica
che non vedevo da tempo. Abbiamo fatto un po' di strada insieme. E
una di quelle conversazioni in cui sintetizzi in pochi minuti tutti
gli anni di vita che non hai condiviso con l'altro. Di quelle
talmente sintetiche che alla fine ti chiedi come sia possibile aver
combinato così poco in così tanto tempo. A guardarla in positivo, è
un po' l'effetto che si dice provi chi sta per morire e vede scorrere
davanti a sé l'intera vita. Come in un film. Però, come diceva
Hitchcock, tagliato delle parti noiose. Che invece, a ben vedere,
costituiscono di gran lunga la componente più corposa delle nostre
vite. Fondamentalmente perché, per paura e bisogno di sicurezza, sono quelle che in realtà più cerchiamo. La noia tranquilla. Repetita iuvant. Parole o
azioni che siano.
“Quattro anni fa – mi ha detto a un
certo punto la mia amica – quando sono morti entrambi i miei
genitori, sono stata letteralmente assalita dal desiderio
irrefrenabile di cambiare tutto nella mia vita. Non sapevo bene cosa
volevo. Solo: mollare il mio lavoro a tempo indeterminato, lasciare
il mio compagno col quale convivo da quasi vent'anni, abbandonare la
mia casa. Partire. Sono stata per mesi lì lì pronta a mandare tutto
affanculo. Ho dovuto farmi aiutare. Insieme a una psicologa, ho
superato quel momento e sono rientrata in carreggiata. Ho rielaborato
il trauma che stavo vivendo. Adesso sto bene”.
Il suo racconto mi ha fatto tornare in
mente un'interpretazione dell'epopea del Buddha che mi aveva molto
colpito ai tempi dell'università. In pratica, mi aveva spiegato il
professor Romano Màdera (uno dei pochissimi insegnanti universitari
che ricordo con piacere), la nostra società è tutta costruita per
puntellare e tenere in piedi la prigione dorata in cui ognuno di noi,
non diversamente da Buddha, vive. Vero è che Gautama a 29 anni
decide di abbandonare tutto e avventurarsi oltre il muro che cinge il
suo giardino paradisiaco. Scoprendo la crudeltà della vita fatta di
vecchiaia, malattia, morte. In altre parole, la realtà al di là
delle finzioni a cui ci aggrappiamo continuamente per poter vivere.
Una scoperta, diceva Màdera, che in pochi sono in grado di
sostenere. Giusto Buddha, ecco. Perciò - concludeva - medici, psicologi, religiosi
(e perfino gli scienziati), sono i pazienti muratori impegnati a
chiudere le falle che di volta in volta si aprono nel muro di
ciascuno, nel corpo o nell'anima: spazi temporali in cui l'identità
personale – e potenzialmente di intere società – risulta
pericolosamente in bilico. In definitiva, guariscono
riportando (quando possibile) l'ordine, personale e sociale, come il sintetico racconto
della mia amica esprime benissimo.
La riflessione avrebbe potuto chiudersi
lì. O qui. Hic et nunc. Sennonché in quella stessa giornata, ma di
pomeriggio, un'altra amica ci ha aggiunto una coda importante. Nella
scuola materna dove insegna ha creato uno spazio che ha chiamato
“Fuori posto”. In quel luogo deve regnare il disordine, tutto
deve essere strutturalmente fuori posto. Nessuno può rimettere
ordine, né le insegnanti né le bidelle. La stanza deve rimanere
esattamente come viene lasciata al termine di un'attività, fino a
quella successiva e quella dopo ancora. Il perché, me lo ha spiegato
in due parole: “non esiste creatività senza disordine”.
Semplice.
Anche il 2014 è finito.
Immagine: "Fallen angel" di Jean Michel Basquiat.
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