Lei ha cantato suonatori di fisarmonica,ciclisti, puttane, assicuratori, ballerini di rumba, sfortunati gestori di bar, cassiere alascane, elettricisti, uomini e gatti svaniti in una tappezzeria. Nelle sue canzoni sembra esserci molto di Simenon. Qual è la sua letteratura preferita?
«Ho letto pochissimi romanzi e nessun personaggio mi ha particolarmente colpito. Fin da adolescente prediligevo la poesia, in particolare i novecentisti italiani. E Giorgio Seferis, lirico greco, il mio preferito. E ascoltavo, come tuttora, jazz arcaico e musica classica. Un po’ di lirica. Sono un Verdiano convinto».
Così si è seduto al pianoforte e si è detto: farò musica. E suo fratello Giorgio con lei. Tutto molto semplice?
«Da ragazzo avrei voluto studiare medicina, poi, per ragioni di convenienza famigliare - nonno, padre e zio notai - ho fatto per un po’ di tempo l’avvocato. Finché la musica non ha preso il sopravvento. Ricordo una vecchia battuta di Giorgio, di quattro anni più giovane, che scherza sempre sulle nostre differenze: in casa c’era uno smoking solo, lo hai preso tu».
Nasi tristi come salite, eleganze di zebra, labbra che si guardano, la campagna che abbaia, l’intorno che è solo pioggia e Francia. Si potrebbe andare avanti a lungo. Come nasce una canzone onomatopeica?
«Nel jazz arcaico o classico il linguaggio degli strumenti si è formato sull’imitazione della voce umana e dei versi degli animali. Quando mi sono messo a scrivere testi di canzoni non ho dimenticato quella tavolozza infinita. Ma c’è un altro aspetto: le parole lontane dal linguaggio parlato e rotolante mi danno di più sul piano dell’essenza poetica e ritmica».
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