E' utile leggerlo, non solo perché è un'inchiesta serratissima su una delle più grandi tragedie italiane del dopoguerra, ma perché nel racconto di quell'Italia - un Paese in cui gli interessi dello Stato non sono gli stessi dei cittadini, ma colludono con quelli di un potere economico spregiudicato e attento esclusivamente al profitto a qualsiasi costo - è fin troppo facile trovare le radici del presente.
Nel racconto del disastro del Vajont è reso esplicito il tradimento già consumato dei valori della Resistenza, della Costituzione e della neonata Repubblica ad appena dieci anni dalla sua fondazione (il disastro è dell'ottobre 1963, ma i primi lavori per la costruzione della diga iniziano nel 1957). L'Italia di quegli anni è un Paese già corrotto e corruttibile, con la parziale attenuante (ma vallo a spiegare ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime di quella strage) di un boom economico che produsse una straordinaria spinta per la conquista di un benessere che nel suo incedere travolse tutto il passato (come disse Marco Paolini nella sua Orazione civile, la tragedia del Vajont fu "il funerale di quell'Italia contadina che non serviva più a nessuno" - qui).
Oggi i meccanismi di esercizio del potere nell'interesse primario di pochi, sono pressoché identici, con l'aggravante che non c'è nemmeno più un orizzonte da raggiungere, una nuova frontiera da conquistare. Per il resto, nell'Italia gattopardesca in cui da quel lontano 1963 tutto sembra essere cambiato, tutto in realtà è rimasto identico.
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